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Indice glicemico - Diabetescore
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Indice

l'indice glicemico
Indice glicemico, carico glicemico e iperglicemia
L'indice insulinico
Scala di valori dell'indice glicemico
La variabilità dell'indice glicemico
L'effetto degli altri macronutrienti sul IG e sull'insulinemia
Metodo di paragone tra fonti glucidiche
Il mito dei carboidrati complessi (o amidi)
La condanna dei carboidrati semplici (o zuccheri)
Conclusioni

 

L'indice glicemico
La glicemia è la quantità di «zucchero» (in realtà di glucosio) contenuta nel sangue. A digiuno la glicemia è di circa 1g di glucosio per litro di sangue.
Ma se si assume un glucide, questo si trasforma con la digestione in glucosio, traducendosi in un aumento della glicemia.
Per lungo tempo si è creduto che tutti i glucidi, a parità di quantità consumata, provocassero una risposta glicemica identica. A partire dalla metà degli anni '70, il dr. Crapo, un ricercatore californiano dell'Università di Standford, ha dimostrato che a parità di contenuto di glucide puro, ogni glucide provocava un diverso aumento della glicemia.
Era dunque necessario misurare il potere iperglicemizzante di ogni glucide (il suo potenziale glicemico, se così si può dire) per poi paragonarli tra loro.
L'indice glicemico o IG (dall'inglese Glicemic index, abbreviato in GI) di un alimento, appunto, indica la velocità con cui aumenta la glicemia in seguito all'assunzione di un quantitativo dell'alimento contenente 50 g di carboidrati, misurando l'andamento della curva a campana dal momento dell'ingestione a due ore dopo. Questo parametro è espresso in percentuale e si rapporta comunemente alla velocità di aumento della glicemia con la stessa quantità di glucosio o di pane bianco. A seconda dell'alimento di riferimento -  se il glucosio o il pane bianco -  viene loro assegnato il valore di 100.
Fu Jenkins, infatti, che nel 1981 mise a punto gli indici glicemici sulla base dei lavori realizzati dal 1976 da Crapo. Invece di considerare semplicemente l'importanza della glicemia provocata da ogni glucide, Jenkins prese in considerazione la superficie del triangolo d'iperglicemia determinata da tutte le curve della glicemia indotta dall'alimento testato e assunto da solo a digiuno.
Per costruire la scala degli indici glicemici Jenkins assegnò al glucosio l'indice 100 (come era stato fatto per esempio per lo 0° del termometro centigrado). Il valore 100 corrisponde del resto al 100% dell'assorbimento intestinale del glucosio ingerito.
L'indice glicemico misura dunque il potere glicemizzante di un glucide, ossia la sua capacità di liberare una certa quantità di glucosio dopo la digestione, misurando quindi la biodisponibilità di un glucide, che corrisponde alla sua percentuale di assorbimento intestinale.
Se l'indice glicemico è alto (per esempio nel caso della patata) la percentuale di assorbimento del glucide corrispondente provocherà una risposta glicemica alta.
Se al contrario l'indice glicemico è basso (per esempio nel caso delle lenticchie) la percentuale di assorbimento del glucide corrispondente provocherà una risposta glicemica bassa se non addirittura insignificante.  Così, rispetto all'indice di riferimento 100 del glucosio, le patatine fritte hanno un indice glicemico (IG) di 95 mentre l’IG delle lenticchie verdi è 25.

Tuttavia bisogna sapere che l'indice glicemico di un glucide non  è fisso, ma può variare in funzione di un certo numero di parametri, quali l'origine botanica o la varietà per un cereale, il grado di maturazione per un frutto, il trattamento termico, l'idratazione, ecc.

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Indice glicemico, carico glicemico e iperglicemia
Il solo controllo dell'indice glicemico degli alimenti non permette di capire la quantità di alimento occorrente per raggiungere la soglia dell’iperglicemia, poiché l'indice glicemico considera solo la velocità di assorbimento dei cibi glucidici (quindi il relativo senso di sazietà), ma non la quantità.

Occorre considerare quindi il carico glicemico per misurare il cibo glucidico necessario a prevenire l'iperglicemia.  In altre parole

  • l'indice glicemico misura la velocità con cui i carboidrati vengono assorbiti, mentre,
  • il carico glicemico misura la quantità di glucidi presenti in un pasto.

I due parametri sono strettamente collegati tra di loro: l’alto indice glicemico di unalimento non necessariamente determina l'iperglicemia se non è elevato anche il carico glicemico; per cui entrambi i fattori dovranno essere considerati al fine della prevenzione dell'iperglicemia.

In base a queste considerazioni si può capire che i cibi ad alto indice glicemico non causano iperglicemia in termini assoluti, ma dipende dalla quantità in cui vengono assunti.

Allo stesso modo si può parlare dei cibi ad indice glicemico basso e medio, che in determinate quantità, sono comunque capaci di causare iperglicemia.

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l'Indice insulinico
In tempi più recenti è emerso un nuovo parametro, l'indice insulinico, il quale misura l'impatto di un cibo direttamente sull'insulinemia - non sulla glicemia - permettendo di valutare più precisamente la risposta insulinica degli alimenti.
Si è visto, infatti, che la produzione di insulina non è sempre proporzionale alla risposta glicemica, perché altri fattori sono in grado di stimolare una produzione o un aumento di secrezione dell'ormone. Proteine (o amminoacidi) e grassi, infatti causano un aumento della produzione di insulina nonostante allunghino i tempi di assimilazione dei carboidrati. Cibi proteici dal contenuto assente di carboidrati, e quindi ad indice glicemico equivalente a zero, come la carne o il pesce, riescono a stimolare significativamente l'insulina, nonostante non causino iperglicemia. Mentre latte e derivati danno una risposta insulinemica molto alta nonostante l'indice glicemico basso/medio.

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Scala di valori dell'indice glicemico

Fino a 40

MOLTO BASSO

da 41 a 55

BASSO

da 56 a 69

MODERATO

da 70

ALTO


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La variabilità dell'indice glicemico  
L'introduzione dell'indice glicemico è servita a dare un riferimento sul valore glicemico a tutti i cibi contenenti carboidrati, ma in molti casi questo valore è molto approssimativo. Non si è valutato infatti che i punteggi assegnati alla maggior parte degli alimenti sono sempre variabili e spesso questa variabilità può essere anche molto marcata. Ad eccezione dei carboidrati puri (come glucosio, fruttosio, saccarosio, galattosio, lattosio ecc. che hanno un IG stabile), i cibi glucidici (che sono composti solo in parte da carboidrati) sono soggetti ad un'estrema variabilità in base a molteplici fattori che alterano il punteggio dell'indice glicemico:

  • La varietà dell'alimento. Le diverse varietà di un frutto o un ortaggio hanno un diverso IG;
  • Il rapporto amilosio-amilopectina. Il rapporto sottoposto a un riscaldamento eccessivo dell'acqua, la struttura dell'amido si modifica. I granuli di amido, idratandosi progressivamente, si gonfiano e una frazione di amilopectina passa nella soluzione poi, se il riscaldamento si prolunga, anche una frazione di amilosio passa nelle soluzione. Il risultato si traduce con una viscosità più o meno consistente della sospensione. È il fenomeno della gelatinizzazione dell'amido.  Occorre sapere che, più la proporzione di amilosio è bassa, maggiore è la gelatinizzazione, e viceversa. Si è potuto dimostrare che più un amido si gelatinizza (per via della sua ridotta percentuale di amilosio) più è facilmente idrolizzabile dalle alfa-amilasi (enzimi digestivi dell'amido), maggiore è la sua propensione a trasformarsi in glucosio e più la glicemia ha, ovviamente, tendenza ad aumentare. In altri termini se un amido contiene una piccola percentuale di amilosio, il suo index glycémique sarà più alto. Al contrario, con una maggiore presenza di amiliosio la gelatinizzazione sarà inferiore, così come la trasformazione in glucosio, e l’indice glicemico sarà più basso. In questo modo si può facilmente desumere perchè la patata, che presenta una bassissima percentuale di amilosio, ha invece un indice glicemico alto. Le lenticchie, invece, con una percentuale di amilosio più alta, hanno un indice glicemico molto basso. L'esempio del mais è altrettanto significativo.
  • La viscosità. Il mais «Waxy» (chiamato anche mais ceroso) praticamente sprovvisto di amilosio, è stato appunto selezionato dall'industria agro-alimentare per l'altissima viscosità del suo amido. Questo tipo di mais è abitualmente utilizzato per ispessire le gelatine di frutta, e per dare maggiore consistenza agli alimenti in scatola o surgelati. Nelle etichette è menzionato alla voce: amido di mais. Essendo il suo indice glicemico molto alto ( quasi pari a 100 ), contribuisce dunque a introdurre in tutte le preparazioni culinarie industriali nelle quali è presente un fattore importante di amplificazione della glicemia. Al contrario, in Australia è stata realizzato un'interessante esperimento che ha visto un produttore di pane industriale aggiungere una percentuale di mais speciale con un altissima presenza di amilosio (>80) al fine di ridurre l’indice glicemico di un tipo di pane bianco tradizionale. L'accoglienza del pubblico è stata, a quanto pare, molto favorevole, soprattutto quella dei bambini, che generalmente si rifiutano di consumare pane integrale.
  • L'idratazione. Il tipo di trattamento tecnico e chimico di cui è oggetto l'alimento: l'idratazione e il calore aumentano l’indice glicemico di un alimento. La carota, per esempio, ha un indice glicemico pari a 35 quando è cruda. Non appena la si fa bollire in acqua, il suo indice glicemico sale a 85, per via della gelatinizzazione del suo amido. Alcuni processi industriali aumentano al massimo la gelatinizzazione. Ciò accade per esempio nella produzione dei fiocchi (purea di patate instantanea) o dei cornflake, ma anche dei leganti quali gli amidi modificati e gli amidi destrinizzati. Queste operazioni portano dunque ad aumentare notevolmente l’indice glicemico (85 per i cornflake, 95 per il puré in fiocchi, 100 per gli amidi modificati).  Allo stesso modo l'esplosione del chicco di maïs, per la produzione di pop-corn, o del chicco di riso per la produzione di riso soffiato, aumenta del 15 / 20% l’indice glicemico originario. Al contrario la «pastificazione» riduce l'indice glicemico. Esiste d'altra parte un processo tecnico naturale che tende a frenare l'idratazione dell'amido. È quanto accade con la «pastificazione» del grano duro. L'estrusione della pasta attraverso una filiera porta a un riscaldamento che si traduce con la costituzione di una pellicola protettiva, che contribuisce a rallentare la gelatinizzazione degli amidi durante la cottura. Ma ciò che vale per gli spaghetti o per alcuni tipi di tagliatelle, che sono appunto «pastificati», ossia estrusi per effetto di un'elevata pressione, non si applica invece ai ravioli, alle lasagne o alla pasta fresca ritagliata con piccole macchine a mano e il cui indice glicemico è molto più alto, allorquando si tratta di prodotti che contengono la stessa farina di grano duro. Partendo da una stessa farina si può dunque arrivare a ottenere prodotti con indici glicemici molto diversi (ravioli 70, spaghetti 40). Bisogna aggiungere che la cottura che precede il consumo di questi alimenti modificherà ulterioremente l’indice glicemico finale. La cottura al dente (da 5 a 6 minuti) consente di conservare l’indice glicemico degli spaghetti al livello più basso, mentre una cottura prolungata a 15/20 minuti provoca un aumento dell'indice per via dell'accelerazione della gelatinizzazione dell'amido.
  • La retrogradazione. Il processo inverso della gelatinizzazione: dopo essere stato oggetto di cottura, che provoca gelatinizzazione, l'amido si modifica nuovamente raffreddandosi. Progressivamente il gel riorganizza le macro-molecole di amilosio e di amilopectina. Si tratta del fenomeno della retrogradazione, ossia il ritorno (che può essere più o meno importante) alla struttura molecolare precedente. Il fenomeno di retrogradazione aumenta del resto con il tempo e con la riduzione della temperatura. La prolungata conservazione a basse temperature (5°) di alimenti amilacei (piatti pronti sotto vuoto) agevola dunque la retrogradazione. Si ottiene lo stesso fenomeno lasciando seccare alcuni alimenti. Per esempio, più il pane è raffermo, più l'umidità si sposta verso l'esterno, agevolando così la retrogradazione dell'amido. Lo stesso accade quando si fa abbrustolire il pane. Anche se la retrogradazione non provoca una reversibilità totale della gelatinizzazione, ciò non toglie che consente di ridurre l'indice glicemico. Ecco perché gli spaghetti (anche raffinati) cotti al dente o raffreddati e consumati in insalata avranno un indice glicemico pari a 35. Si può altresì dedurre che una pagnotta prodotta con la stessa farina, a seconda che sia preparata fresca (e ancora calda), rafferma o tostata, non avrà lo stesso indice glicemico. Allo stesso modo, si può ritenere che il fatto di congelare una pagnotta fresca, poi scongelarla a temperatura ambiente, porta ad abbassare notevolmente il suo indice glicemico originale. D'altra parte, è interessante sapere che le lenticchie verdi fredde (a maggior ragione se sono rimaste nel frigorifero per 24 ore) hanno un indice glicemico ancora più basso dello stesso prodotto appena cotto (tra 10 e 15). Questo si spiega perchè più l'amido d'origine è ricco di amilasi, maggiore è l'efficacia del fenomeno di retrogradazione. Tuttavia, è stato dimostrato che il fatto di aggiungere lipidi a un amido che è stato oggetto di gelatinizzazione provoca un rallentamento della retrogradazione. Inoltre un amido retrogradrato che viene riscaldato perde parte del suo potere di gelatinizzazione. Una frazione (il 10% circa) dell'amido retrogradato diventa termoresistente, il che porterebbe a dimostrare che il riscaldamento di un glucide dopo la conservazione al freddo contribuirebbe a ridurne l’indice glicemico. Infine l'amido, allo stato originario (grezzo e naturale), non è presente solo negli alimenti crudi: può in alcuni casi persistere sotto questa forma dopo la cottura quando il contenuto di acqua del prodotto è stato localmente insufficiente per consentirne la gelatinizzazione. È quanto accade, in particolare, con la crosta del pane e i biscotti di tipo "sablé" (pasta frolla), dove la struttura granulare dell'amido persiste in parte dopo la cottura, diminuendone di conseguenza l'indice glicemico rispetto agli amidi che invece sono stati gelatinizzati (quello della mollica del pane, ad esempio). È il motivo per cui la cottura a vapore, delicata, o stufata, con un potere d'idratazione basso, se paragonata alla cottura per immersione, provoca una minima gelatinizzazione.
  • Il contenuto di proteine e di fibre: per alcuni glucidi, il contenuto naturale di proteine può essere all'origine di una minima idrolizzazione (digestione) degli amidi, e di conseguenza di una riduzione dell’indice glicemico. Ciò accade in particolare nella famiglia dei cereali. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso della pasta alimentare. La presenza di glutine rallenta, infatti, l'azione delle amilasi digestive e ciò limita allo stesso modo l'assorbimento di glucosio. Appare chiaro così il motivo per cui il grano duro (più ricco di glutine) ha un indice glicemico più basso rispetto al grano tenero, con il quale si fa il pane. In linea di massima, però, tutti i grani moderni ad alto rendimento hanno da due a tre volte meno glutine rispetto al grano antico.  Di conseguenza, più i cereali moderni sono consumati raffinati, più provocano glicemie elevate, il che contribuisce a impoverirne ulteriormente il contenuto di glutine,  già basso in origine. Emerge d'altra parte che il contenuto di fibre alimentari di un amido può costituire una barriera contro l'azione delle amilasi, e ridurre così ulteriormente l'assorbimento di glucosio. Tuttavia, sembra che siano principalmente le fibre solubili (che si ritrovano nella maggior parte dei casi nelle leguminacee, ma anche nell'avena) a poter rivestire un ruolo diretto o indiretto sulla riduzione dell'assorbimento intestinale del glucosio, e far così abbassare l’indice glicemico dell'amido in oggetto.
  • Il grado di maturazione e di invecchiamento: i frutti amilacei aumentano il loro indice glicemico in funzione del loro grado di maturazione. Il fenomeno è particolarmente vero per la banana (molto meno per la mela). Una banana acerba (verde) avrà un indice glicemico piuttosto basso (circa 40), mentre al termine della sua maturazione l'indice sarà molto più alto (65), per via della trasformazione del suo amido che, via via che il frutto matura, diventa sempre meno resistente. La cottura della banana verde dà origine allo stesso fenomeno. Per cercare di essere il più esaurienti possibile, bisogna altresì notare che la conservazione di alcuni alimenti, in particolar modo la patata, provoca un aumento dell'IG per via della trasformazione naturale dei loro amidi. Le patate conservate per diversi mesi hanno dunque un indice glicemico più alto rispetto alle patate novelle.
  • La dimensione delle particelle.  Quando un amilaceo è macinato, più le particelle di amido sono sottili, più l'idrolizzazione delle molecole di amido è favorita, il che comporta come conseguenza l'aumento dell’indice glicemico. Ciò è vero soprattutto per i cereali quando sono ridotti in farina. La farina di riso ha così un IG maggiore del riso originario. Un tempo il grano era macinato a pietra e ridotto in particelle di grosse dimensioni. Anche se poi era passato attraverso un setaccio, quest'ultimo era sommario e la farina che ne risultava rimaneva tutto sommato piuttosto grossolana (farina nera). Il cosiddetto «pane bianco» dell'epoca aveva così un IG che andava da 60 a 65, un valore piuttosto ragionevole. Oggi, tra i rari tipi di pane che corrispondono a questo standard, vi è il celebre pane «Poilâne» (celebre pane francese con farina macinata a pietra). Questo tipo di pane è tanto più interessante per il fatto che è prodotto esclusivamente con lievito naturale, il che contribuisce ancor di più a ridurre l'indice glicemico.  Il pane del popolo, dal canto suo, un tempo era fatto con una farina grezza non abburattata che conservava per intero i componenti del chicco di grano, da cui deriva il nome «pane integrale». Considerato che le particelle erano abbastanza grossolane, che conteneva un’elevata percentuale di fibre e di proteine e che, come se ciò non bastasse, era fatto con il lievito, l’indice glicemico risultava ovviamente ancor più basso (tra 35 e 45). Con l'invenzione del mulino a cilindro nel 1870, la fabbricazione della farina bianca si è diffusa, in un primo tempo in Occidente, poi in tutti i paesi del mondo. Questo nuovo mezzo tecnico ovviamente considerato, anche se a torto, un «progresso», si sarebbe tradotto in un impoverimento della qualità nutrizionale del pane. Da allora, grazie alle attrezzature dell’industria molitoria sempre più sofisticate, le farine sono sempre più «pure», nel senso tecnico del termine. Il che si traduce, nutrizionalmente parlando: meno fibre, meno proteine e micronutrimenti (vitamine, minerali, acidi grassi essenziali…) e particelle sempre più sottili. Da ciò deriva un indice glicemico sempre più elevato in tutti gli alimenti di cui questa farina iperraffinata è uno dei principali componenti.
  • Il grado di maturazione: maggiore è la maturazione di frutto, maggiore è l'IG;
  • Il rapporto tra diversi carboidrati: il diverso rapporto tra glucidi contenuti in un alimento determina un diverso IG (come il rapporto glucosio/fruttosio per il miele);
  • La zona di coltivazione: la diversa provenienza e il diverso clima causano una variazione dell'IG;
  • La raffinazione: i cibi glucidici raffinati, come i farinacei nel caso del grano, o di altri cereali, hanno un IG più alto;
  • I macronutrienti: il maggiore contenuto di grassi e di proteine determina un IG più ridotto, ma un II maggiore;
  • Le fibre: il maggiore contenuto di fibre (specie solubili) determina un IG più ridotto;
  • Il grado di idratazione: un cibo glucidico maggiormente idratato è più digeribile di uno secco (l'amido crudo è indigeribile);
  • I tempi di cottura: la cottura di un alimento amidaceo aumenta l'IG in maniera proporzionale;
  • I pasti precedenti e orari: l'impatto glicemico di un pasto glucidico varia in base agli orari e alla composizione dei pasti precedenti.


Fatte queste premesse, si capisce che non è possibile stabilire con esattezza l'indice glicemico di un alimento glucidico, salvo alcune eccezioni. Anche il conseguente calcolo del carico glicemico di conseguenza non potrà rivelarsi esatto.

I casi in cui un IG si presenta stabile e immutato possono essere:

  • carboidrati puri, la cui conformazione e il peso molecolare non subisce variazioni: glucosio, fruttosio, saccarosio, galattosio, lattosio hanno un IG stabile (N.B.: l'amido puro è escluso poiché la sua composizione è variabile (rapporto amilosio/amilopectina; idratazione; cottura; composizione del cibo; raffinazione);
  • cibi confezionati: l'IG di un cibo confezionato prodotto da un determinato marchio può mantenere un IG più o meno stabile, sebbene anche questo possa essere soggetto ad una certa variabilità.

Il valore dell'indice glicemico degli alimenti si rivela in definitiva come una stima approssimativa, poiché nella maggior parte dei casi il loro valore non è fisso e può subire delle variazioni notevoli. Esistono però alimenti che sono soggetti ad una maggiore variabilità, come miele, banane, riso, patate, pane bianco, gelato; mentre altri dimostrano una tendenza a mantenere un valore non troppo variabile, come pere, mele, legumi.

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L'effetto degli altri macronutrienti sul IG e sull'insulinemia
Un cibo glucidico che presenta al suo interno una maggiore quantità di grassi e proteine risulta a IG più basso, poiché la presenza di questi nutrienti rallenta e allunga i processi digestivi. Ne è un esempio il latte, che da intero ha un IG più basso di quello scremato. Grassi, proteine e fibre (specie quelle solubili) abbassano l'IG di un alimento, e di conseguenza anche il carico glicemico. Per questo motivo in ambito nutrizionale viene consigliata la combinazione degli altri macronutrienti con i carboidrati con l'intento di ridurre il picco insulinico. Tuttavia, emerge un dato che contrasta con questa considerazione, cioè che proteine e grassi aumentano la secrezione di insulina, specie se assunti assieme a carboidrati. Per la precisione, i cibi glucidici con un contenuto maggiore di proteine e grassi, o l'accostamento di cibi glucidici con grassi e proteine, sebbene causino un'assimilazione rallentata e più graduale dei glucidi, determinano una produzione di insulina sproporzionata rispetto al indice e carico glicemico della fonte glucidica. Allo stesso modo un pasto misto, contenente una fonte di carboidrati, mescolata ad una di proteine e grassi, aumenta l'insulinemia. Effettivamente la velocità di assorbimento dei glucidi (IG) non è affatto predittiva della conseguente risposta insulinica. Anche i cibi proteici, come la carne, il pesce, le uova e il latte, causano la secrezione di insulina. Alcuni di questi non contengono carboidrati, altri li contengono in quantità minime, ma l'insulinemia risulta maggiore della glicemia. Uno studio ad esempio riscontrò che gli spaghetti integrali, pur presentando un indice glicemico simile agli spaghetti bianchi, incrementavano la risposta insulinica rispetto a questi ultimi a causa del loro maggiore contenuto proteico. Questi concetti sono ben rappresentati dall'indice insulinico e carico insulinico, ovvero parametri che stabiliscono direttamente l'incremento dell'insulinemia, e non della glicemia, in seguito all'ingestione di qualsiasi macronutriente, e non solo dei carboidrati. Nonostante si sia dato poco spazio a questi metodi di valutazione relativamente più recenti (l'indice insulinico ha iniziato ad essere utilizzato in alcuni studi soprattutto a partire dai primi anni 90, mentre il carico insulinico solo negli ultimi anni), ciò serve meglio a comprendere l'effetto dell'insulina, la quale non interviene solamente in risposta ai carboidrati, e che incrementa in quantità notevoli in risposta a cibi puramente proteici (non necessariamente o non completamente a causa di un innalzamento della glicemia) e soprattutto ad un pasto misto. L'errore di valuzione è stato supportato dal fatto che l'attenzione si è concentrata solo sui valori della glicemia, senza riconoscere che l'insulinemia non è sempre strettamente proporzionale all'innalzamento degli zuccheri nel sangue.
Effettivamente l'impatto dei macronutrienti sull'insulinemia è, del 90-100% per i carboidrati, del 50% per le proteine e del 10% per i grassi, e ciò conferma che non sono solo i carboidrati ad incidere sulla produzione insulinica, ma anche proteine in maniera più moderata, e grassi in maniera molto blanda, cosa che l'indice glicemico non esamina. Quindi, a parità di carico glicemico dato da una stessa fonte glucidica, un pasto misto influisce su un'incrementata produzione di insulina, rispetto ad un carico glicemico identico se assunto da solo. La combinazione di un alimento o di un pasto influenzano in modo determinante la produzione dell'ormone.

Questo concetto è importante per il diabetico, perchè larichiesta di una maggiore produzione di insulina, comporta inevitabilmente un aumento della glicemia se non contrastato con l'assunzione di un ulteriore dose di insulina dopo circa cinque e sei ore dal pasto, e questo perchè l'assimilazione dei grassi incomincia dopo questo orario. Si spegano così iperglicemie al mattino nel caso in cui per cena si sia mangiato un piatto di spaghetti ai frutti di mare, pietanza in cui il contenuto di grassi è elevato.

Un esempio:
Se si intende consumare un cibo a IG medio, combinato a un carico glicemico medio, si può optare per un piatto di spaghetti. Gli spaghetti hanno mediamente un IG di "57", ciò significa che il loro valore si colloca al limite tra IG basso e medio (tra 56 e 69 l'IG è considerato medio). Per ottenere un carico glicemico medio con un piatto di spaghetti, sarà possibile consumarne al massimo circa 40 grammi pesati secchi, visto che il calcolo del carico glicemico prevede di conoscere l'IG dell'alimento, e la percentuale di carboidrati di un alimento (in questo caso 75 %), che poi verranno calcolati. La quantità di consumo così moderata è data dall'altà densità di carboidrati, più che dall'indice glicemico. IG (57) x quantità di carboidrati (30 grammi su 40 di peso) / 100 = 17,1
Si può dire che 40 grammi di spaghetti secchi, in base al loro indice glicemico e al loro contenuto di carboidrati, possano essere una quantità limite per poter rimanere dentro il carico glicemico medio (sapendo che da 20 in poi il carico glicemico è per definizione alto). Quindi la conseguente produzione di insulina causata da un tale carico glicemico, in condizioni normali dovrebbe risultare in quantità moderate. Tutto questo stimando che la risposta glicemica sia proporzionale a quella insulinica.
Se però a questo piatto di spaghetti viene aggiunto un ragù o frutti di mare (che contiene proteine e grassi) o del tonno, e dell'olio, sebbene l'assimilazione del pasto, e quindi anche dei carboidrati, venga rallentata,(con glicemie dopo due oe che possono rientrare nel ranfe normale) la conseguente produzione di insulina, e quindi il carico insulinico, non sarà più proporzionale a quella del carico glicemico degli spaghetti, ma verrà notevolmente incrementata a causa dell'accostamento di proteine e grassi (con iperglicemie dopo circa 5 o 6 ore).
in conseguenza del carico insulinico).

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Metodo di paragone tra fonti glucidiche
L'indice glicemico non permette di riconoscere se una data quantità di un alimento sia in grado di causare iperglicemia, né permette di riconoscere, a parità di peso tra due alimenti, quale dei due abbia un maggiore potere glicemizzante. Questo dato infatti può essere conosciuto solo col carico glicemico, che può essere calcolato solo conoscendo la percentuale di glucidi di un alimento, e quindi la quantità di glucidi in una determinata porzione.
Quando viene detto che il consumo di un cibo ad alto IG determina concentrazioni glicemiche ed insulinemiche superiori rispetto ad un cibo a basso indice glicemico, si sottointende dire che questo succede a parità di assunzione glucidica, non a parità di peso o in termini assoluti. L'indice glicemico infatti paragona il potere glicemizzante degli alimenti sulla base di una madesima quantità di carboidrati contenuti al loro interno (per definizione 50 grammi), non sul medesimo peso degli alimenti. Quindi deve essere presa in considerazione la percentuale di carboidrati contenuti all'interno di un cibo, poiché il loro potere glicemizzante è determinabile sulla base di una quantità identica di carboidrati, non una quantità identica di peso.

Ad esempio:

  • L'indice glicemico medio della patata bollita è 80, ma ha un contenuto di carboidrati attorno al 20 % del suo peso.
  • L'indice glicemico del riso bianco è circa uguale a quello della patata bollita (attorno a 80), ma pesato secco, ha un contenuto di carboidrati del 80 %.
  • L'indice glicemico dei fagioli è di circa 30, ed il loro contenuto di carboidrati sul peso secco e del 60 %.
  • L'indice glicemico del glucosio è 100, ed essendo un carboidrato puro, ha un contenuto di glucidi del 100 %.

Quindi per paragonare il potere glicemizzante di questi quattro alimenti in base al loro indice glicemico, deve essere impiegata una quantità di questi, tale da fare in modo che il loro contenuto di carboidrati risulti tra loro identico. In questo caso possono essere presi come esempio 50 grammi di carboidrati:

  • per ottenere 50 grammi di carboidrati dalle patate bollite si deve prendere in esame una quantità di 150 grammi.
  • per ottenere 50 grammi di carboidrati dal riso bianco secco si deve prendere in esame una quantità di circa 60 grammi (sebbene l'IG sia stabilito in seguito alla cottura/idratazione).
  • per ottenere 50 grammi di carboidrati dai fagioli secchi si deve prendere in esame una quantità di circa 80 grammi (sebbene l'IG sia stabilito in seguito alla cottura/idratazione).
  • per ottenere una quantità di 50 grammi di carboidrati dal glucosio, si deve prendere in esame una quantità di 50 grammi.

150 grammi di patate bollite, 60 grammi di riso, 80 grammi di fagioli, e 50 grammi di glucosio, hanno circa lo stesso contenuto di carboidrati.

Il potere glicemizzante di questi alimenti viene stabilito sulla base del consumo di medesime quantità di carboidrati contenuti nei vari alimenti, ma non sulla base del medesimo peso netto degli alimenti. Quindi in questo caso un fattore aggiuntivo per riconoscere l'IG è quello di valutare la percentuale di carboidrati contenuti al loro interno. Se tutto ciò non viene riconosciuto, ecco che si vanno ingenuamente a preferire cibi dal indice glicemico più basso, ma magari dall'alta densità di glucidi (pasta) e di fatto in quantità eccessive. Ma come abbiamo detto:

  • 100 grammi di patate (alimento ad alto IG) hanno una bassa densità glucidica (20 %), quindi consumare una quantità del genere non ha particolari proprietà iperglicemizzanti sulla base del calcolo del carico glicemico.
  • 100 grammi di fagioli secchi (alimento a basso IG una volta cotti) hanno una densità glucidica notevolmente maggiore (60 %), ma il consumo di una tale quantità comunque non ha particolari proprietà iperglicemizzanti sulla base del calcolo del carico glicemico.
  • 100 grammi di spaghetti secchi (alimento a medio IG una volta cotti) hanno una densità glucidica ancora maggiore (75 %), ed il consumo di una tale quantità ha proprietà iperglicemizzanti sulla base del calcolo del carico glicemico.
  • 100 grammi di riso secco (alimento ad alto IG una volta cotti) hanno una densità glucidica molto alta (80 %), ed il consumo di una tale quantità ha proprietà ancora più iperglicemizzanti sulla base del calcolo del carico glicemico.

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Il mito dei carboidrati complessi (o amidi)
Seguendo i consigli nutrizionali generali riguardo all'assuzione di glucidi, si tende a raccomandare un maggior consumo di cibi contenenti carboidrati complessi (si fa riferimento all'amido), e ridurre l'assunzione di carboidrati semplici (zuccheri). Questa considerazione generalista è basata sul fatto che l'amido, in quanto carboidrato complesso, risulterebbe "presumibilmente" a lenta assimilazione e ad indice glicemico più moderato per la sua struttura, che favorirebbe più lunghi processi digestivi. Sarebbe dunque consentita, se non incentivata, la scelta di alimenti dal modesto o alto contenuto di questo carboidrato, senza riconoscere che gli amidacei, in quanto tali, non hanno sempre un IG medio o basso, o che le abituali quantità di consumo in molti casi risultano comunque eccessive se relazionate alla scala di valori del carico glicemico basso o medio. L'osservazione che vede i carboidrati complessi assimilati lentamente e in grado di fornire energia più gradualmente e in tempi più lunghi, deriva dalla vecchia e superata teoria scientifica sulla classificazione dei carboidrati diffusa prima della scoperta dell'indice glicemico da parte di David Jenkins et al. nel 1981.

Il concetto dei carboidrati complessi può valere se quel cibo ha un IG basso, ma tanti cibi amidacei non corrispondono a queste caratteristiche: al contrario, molti cibi amidacei hanno un IG molto elevato (pane bianco, riso, mais, farinacei, raffinati), spesso superiore a quello dello zucchero comune (saccarosio). Altri hanno un IG moderato (pasta), ma comunque un'alta densità di glucidi, pertanto basterebbe un consumo relativamente basso di questi alimenti (40-50 gr) per causare elevati valori glicemici. Quindi l'appartenenza di un carboidrato alla categoria dei complessi o dei semplici non è predittiva della velocità con cui la fonte glucidica innalza la glicemia (IG), né permissiva sulla quantità di consumo per controllare i livelli della glicemia e insulinemia (CG). Inoltre, sembra che i cibi amidacei integrali possano determinare una risposta insulinica maggiore rispetto a quella glicemica se comparati ai raffinati, per il loro più alto contenuto proteico (indice insulinico). In questo caso non si è valutato che l'amido (cioè il carboidrato complesso in oggetto):
è un polimero del glucosio (una macromolecola formata da tante catene di glucosio) in buona parte dei casi altamente digeribile;

  • che la struttura complessa non determina necessariamente un lento assorbimento;
  • che molti cibi amidacei hanno un elevato IG (ad esempio molte qualità di riso, il mais, e il pane bianco hanno un IG alto per definizione);
  • quindi che la presunta assimilazione graduale degli amidacei in realtà non si manifesta in tempi lunghi se quel cibo ha un medio-alto IG, perché appunto alto IG significa rapida assimilazione;
  • che la maggiore permanenza nel tratto gastrico (2/3 ore circa) non significa una conseguente lenta assimilazione;
  • che la cottura ne eleva l'indice glicemico in maniera proporzionale (fino ad arrivare, nei casi limite, al IG del glucosio stesso, o non distante);
  • che la sua digeribilità può dipendere in parte dal grado di idratazione dell'alimento;
  • che l'indice glicemico varia anche in base al rapporto amilosio/amilopectina (maggiore è la percentuale di amilosio, più basso in proporzione sarà l'IG);
  • che i principali cibi amidacei hanno un'alta densità di questo carboidrato (tra il 60 e l'80 % sul secco);
  • che un consumo di cibi contenenti questo carboidrato anche in quantità modeste il più delle volte sortisce un effetto iperglicemizzante in base al calcolo del carico glicemico, a causa della sua alta digeribilità, alta densità, ridotto potere saziante, ridotta presenza di altri macronutrienti e fibra.
  • che un maggior contenuto proteico (come nei cibi integrali), o l'accostamento di una fonte proteica o lipidica all'amidaceo, incrementa la secrezione di insulina, cosa letale per un diabetico.

Quindi la raccomandazione che vede la prevalenza di cibi amidacei rispetto agli zuccheri può valere se quei cibi amidacei hanno un IG medio-basso, e, soprattutto, se vengono consumati in quantità adeguate sulla base del calcolo di un carico glicemico medio-basso. E ancora, se vengono consumate senza l'accostamento di altre fonti insulinogeniche (protidi, lipidi). Mentre il consumo di cibi amidacei ad alto indice glicemico e alta densità glucidica, come una buona parte delle qualità di riso, pane bianco, mais, e altri cereali e derivati, equivale praticamente all'ingestione di una simile quantità di zuccheri semplici (poiché questi amidacei possono facilmente superare l'IG del saccarosio).

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Conclusioni
Le raccomandazioni e il senso comune vedono le più diffuse varietà di zuccheri (saccarosio e glucosio) come responsabili di una risposta glicemica superiore e più rapida rispetto a molte qualità di amidacei. Realmente quest'ultima classe di alimenti difficilmente raggiunge i valori del glucosio (IG 100), ma, come già accennato, spesso molti di questi assumono un valore simile o superiore al saccarosio (il quale IG viene riconosciuto tra 58 e 72), riuscendo a raggiungere valori anche attorno a 90.

C'è da considerare che la categoria di zuccheri semplici ad alto IG è piuttosto limitata: glucosio (100) e maltosio (110), mentre il saccarosio si colloca in genere all'interno di un punteggio tra medio e alto (tra 58 e 72 al massimo) e la maggior parte di questi hanno un IG molto inferiore (20 o 30) rispetto a molti cibi amidacei:   la struttura semplice dei glucidi non determina di conseguenza un alto IG e quindi un  rapido assorbimento (ad esempio fruttosio, trealosio, isomaltulosio, galattosio, lattosio, pur essendo semplici, non sono di rapida assimilazione, oppure non sono insulinogenici) a condizione di un basso carico glicemico.  Infatti quantità basse o moderate di zuccheri semplici ad alto indice glicemico (glucosio, saccarosio) o di cibi contenenti un'alta densità di questi zuccheri non porterano ad iperglicemia e iperinsulinemia se il carico glicemico è contenuto. Anzi piccoli quantitativi di zucheri (5g ipoglicemie con valori pari a 50 faranno rientrare i valori nela media senza provocare le successive iperglicemie in conseguenza di un assunzione eccessiva.

Nell'esempio che segue un piatto di 100 gr di pasta, pur avendo un IG inferiore, è di fatto iperglicemizzante rispetto ad una bustina di zucchero da 5 grammi, giocando un ruolo rilevante  il carico glicemico:

  • 5 grammi di glucosio (IG alto: 100) avranno un bassissimo impatto sulla glicemia (100 x 5 / 100 = CG basso: 5) e non potranno portare ad iperglicemia, iperinsulinemia e all'accumulo di grasso nonostante siano assimilati molto rapidamente
  • 100 grammi di spaghetti (IG medio: 57) avranno un impatto molto alto sulla glicemia (100 x 57/ 100 = CG alto: 42) e un probabile effetto sull'accumulo di grasso, nonostante siano assimilati più lentamente

Una porzione di glucosio molto bassa, determinerà una risposta glicemica inferiore rispetto ad una porzione di un cibo amidaceo consumata in quantità molto maggiori. Dunque un consumo modesto e controllato di questi zuccheri tramite l'applicazione del carico glicemico, non può causare effetti iperglicemici.

Per la Tabella degli indici glicemici:
vedi http://www.montignac.com/it/ricerca-dell-indice-glicemico/#letter_

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Fonti
http://www.montignac.com/it/;
http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_glicemico